Infezioni Covid, infortuni e responsabilità del datore di lavoro
di Andrea Uberti
25 maggio 2020
Guida al Lavoro - Il Sole 24 Ore
Nel c. d. Decreto “Cura Italia” (DL 17 marzo 2020, n. 18, convertito con legge 24 aprile 2020, n. 27), l’art. 42, comma 2 ha precisato che l’infezione da SARS-Cov-2 (da ora Covid), come tutte le infezioni da agenti biologici, se contratte “in occasione di lavoro”, è tutelata come infortunio, a prescindere dalla pandemia e dall’elevato rischio di contagio in tutta la popolazione.
Perimetro della tutela INAIL per il Covid
La circolare precisa che l’indennità per inabilità temporanea assoluta copre anche il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria (sempre che il contagio sia riconducibile all’attività lavorativa), posto che in tale periodo si impone l’astensione dal lavoro. In realtà si tratta di un effetto già immanente al sistema posto che per giurisprudenza consolidata l’impedimento al lavoro che fa scattare tale l’indennità (artt. 68 del DPR 30 giugno 1965, n.1124), comprende ogni incompatibilità con il lavoro per esigenze terapeutiche e di profilassi del lavoratore. Si spiega poi che l’infortunio Covid viene completamente sterilizzato rispetto alla determinazione del premio assicurativo, in particolare all’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico, così escludendo che tali infortuni possano comportare maggiori oneri per le imprese.
La qualificazione del contagio Covid come infortunio
Benché la norma si collochi in continuità con i principi generali in materia, si è scatenato un dibattito mediatico alimentato dal timore che essa esponga il datore di lavoro a frequenti azioni di responsabilità civile e/o penale per il contagio Covid dei propri dipendenti, senza che lo stesso possa controllare l'evento. Il tutto con l’effetto perverso di scoraggiare la riammissione in servizio all’inizio della fase due, ritardando la ripresa dell'economia.
La circolare INAIL n. 13 del 3/4/20 ha tentato di chiarire che l’art. 42 del DL n. 18/2020 nulla ha cambiato rispetto al sistema, ma si sono tuttavia diffusi timori basati sul seguente sillogismo: se l'infezione Covid di un dipendente viene qualificata come infortunio, automaticamente il datore di lavoro rischia di essere coinvolto in procedimenti per responsabilità civile e/o penale nei quali avrebbe l’onere di dimostrare la compiuta adozione di ogni possibile forma di tutela (cosa non sempre facile) a dispetto del fatto che è oltremodo difficile stabilire come e dove il lavoratore abbia contratto l’infezione.
II timori di compromettere la riapertura delle attività e le pressioni mediatiche hanno indotto l'INAIL a diramare il comunicato stampa del 15 maggio 2020 dal rassicurante titolo: “L’infortunio sul lavoro per Covid-19 non è collegato alla responsabilità penale e civile del datore di lavoro” , anticipando in parte la circolare n. 22 del 20/5/20 che ora compie una ricostruzione più completa del sistema.
Per leggere correttamente la nuova circolare n. 22/2020, occorre distinguere tre temi fondamentali: (a) il nesso di causalità tra evento morboso e condotta datoriale (imponendo che l’evento lesivo sia avvenuto nello svolgimento dell’attività lavorativa – la c.d. occasione di lavoro); (b) l’onere della prova (fondamentale nel processo) e le presunzioni che lo possono ribaltare; (c) l’imputabilità (colpa o dolo) come imprescindibile presupposto della responsabilità (civile e/o penale) del datore di lavoro.
L’ordine non è casuale. Se non esiste il nesso di causalità non può esistere responsabilità del datore di lavoro, a prescindere dalla imputabilità. Tornando alla circolare n. 22/2020 essa si prodiga nel ripetere che non esiste alcun automatismo tra riconoscimento dell’infortunio e della sua matrice lavorativa e l’eventuale responsabilità civile e/o penale del datore facendone una sorta di mantra rassicurante non sempre adeguatamente motivato.
E’ vero che non esiste un automatismo tra riconoscimento del contagio come infortunio sul lavoro ed una responsabilità penale e/o civile del datore di lavoro, ma è innegabile che, se il contagio viene qualificato come “infortunio” è perché sia un medico sia l’INAIL hanno ritenuto che esso sia riconducibile ad una causa lavorativa, ovvero sia avvenuto “in occasione di lavoro” .
Tale accertamento finisce per avere una sua rilevanza sul nesso di causalità, ancorché indiretta e non sia vincolante per il datore di lavoro, e quindi compie, in parte, un primo passo verso l’eventuale accertamento della responsabilità.
Principi generali e rischio da contagio Covid.
Il sistema normativo distingue due categorie di rischio.
Il “rischio specifico” si riferisce ai casi in cui esso è correlato al tipo di attività (es. utilizzare prodotti tossici, lavorare in ambienti contaminati etc), ed in tali casi il datore di lavoro ha l’obbligo di effettuare una specifica “valutazione del rischio” ed “elaborare il DVR” integrandolo secondo quanto previsto dall’art. 271 del d.lgs. n. 81/2008. In questi casi se il lavoratore contrae malattia legata a tale rischio specifico il nesso di causalità con la prestazione lavorativa si presume, fatta salva la prova contraria (c.d. presunzione semplice).
Il “rischio generico” ricorre quando l’agente che determina il pericolo non è connesso all’attività svolta, ma deriva da una situazione esterna, imprevedibile o comunque non governabile dal datore di lavoro. In questi casi non solo il datore di lavoro non sarebbe tenuto alla specifica integrazione del DVR, ma in caso di contrazione della malattia è il lavoratore che deve dimostrare che l’evento morboso sia avvenuto “in occasione di lavoro”. Non opera alcuna presunzione.
La distinzione è fondamentale per collocare anche il rischio da contagio Covid rispetto alla copertura INAIL e al nesso di causalità.
Come precisa la circolare n. 22/2020 l'infezione da coronavirus rientra tra le malattie infettive e parassitarie e pertanto anch’essa merita la copertura INAIL per gli assicurati che la contraggono “in occasione di lavoro”: in particolare la causa virulenta è equiparata a quella violenta .
Si osservi che la copertura INAIL per una infezione Covid avvenuta “in occasione di lavoro” vi sarebbe stata a prescindere dalla norma emergenziale (art. 42 DL n. 18/20) e sarebbe avvenuta in base ad una presunzione semplice per le attività dove il rischio contagio Covid è insito nelle mansioni (rischio specifico, es. attività ospedaliere), con onere della prova a carico dell’interessato in tutti gli altri casi (rischio generico).
L’art. 42 del DL n. 18 del 17 marzo 2020 non ha alterato il sistema e la distinzione tra rischi “specifici” e “generici” né i principi sulla ripartizione dell’onere della prova e le presunzioni sul nesso di causalità (operazione peraltro inopportuna per una norma speciale ed emergenziale). Su questo entrambe le circolari (la n. 13/2020 e la n. 22/2020) sono concordi.
Risvolti pratici.
Date queste premesse il problema si sposta su due piani differenti: (1) in via generale come distinguere le attività per le quali il contagio Covid è solo un “rischio generico” (la maggioranza) e quelle per le quali debba considerarsi insito nell’attività diventando “rischio specifico”; (2) in relazione ai singoli casi individuare i criteri con i quali i medici andranno a certificare la riconducibilità al lavoro di una infezione Covid.
(1) Sul primo versante il problema è molto complesso e servirebbero indicazioni più precise rispetto a quanto fatto sino ad ora .
Su questo aspetto la circolare ultima n. 22/2020 è purtroppo carente: confonde spesso il tema del nesso di causalità con quello della imputabilità: non si avvede dell’importanza del primo, e non coglie l’esigenza di calare la distinzione tra rischio “generico” e “specifico” nell’ambito della multiforme realtà Covid.
La domanda chiave è: l’alta virulenza dell’epidemia in atto, la differente pericolosità normativamente riconosciute tra fase 1 e 2 e molti altri fattori (geografici e di contesto) che incidono sul rischio, possono trasformare il rischio contagio Covid da “generico” (quale è per definizione) in “specifico”?
Le circolari non danno risposte precise ovvero denotano scarsa consapevolezza del problema benché sia fondamentale per spostare l’equilibrio del sistema e i definire i rischi imprenditoriali. La circolare n. 13/2020 sembrerebbe ammettere siffatta trasformazione del rischio contagio Covid da “generico” a “specifico” anche in modo molto ampio sia con riferimento di portata generale alle “… attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza …” sia citando, in via solo esemplificativa, i lavoratori che operano in front-office, alla cassa, alle vendite/banconisti e concludendo espressamente che “… Anche per tali figure vige il principio della presunzione semplice valido per gli operatori sanitari” (cfr. nota 4).
Per fare un esempio, la cassiera del supermercato rientra in un rischio specifico e se contrae il Covid si presume sia infortunio a prescindere dalla oggettiva difficoltà (che sfiora l’impossibilità) di stabilire dove e come lo abbia contratto. Questo passaggi della circolare n. 13/2020 espande enormemente l’ambito nel quale si presume il nesso di causalità in base a criteri di valutazione non precisati e scarsamente prevedibili (rendendo reali i timori dei datori di lavoro di vedere ampliato in modo imprevedibile il loro coinvolgimento).
Su questo punto la circolare 22/2020 non solo non fa alcun passo indietro, ma ha perso una buona occasione per fare chiarezza ed offrire criteri oggettivi, lasciando grande incertezza sul tema del nesso di causalità, che in relazione al contagio Covid ha un valore fondamentale e prioritario che si colloca a monte della imputabilità.
La circolare 22/2020 cerca di rassicurare i datori di lavoro facendo leva sul fatto che per accertare la loro responsabilità è necessario provata l’imputabilità per dolo o colpa, ma dimentica che a monte, si lascia ampia incertezza sul nesso di causalità perché non si precisa ove sussiste un rischio generico o specifico in relazione al Covid e non si corregge né si delimita l’ampia e generica previsione di vaste ipotesi di rischio specifico per contagio Covid presente nella circolare precedente.
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Sembrerebbe quindi opportuno, ovunque vi sia il sospetto che l’attività possa portare con se un minino fattore di rischio specifico di contagio, effettuare le valutazioni specifiche del caso integrando il DVR, anche solo con un documento allegato .
Forse più opportunamente si sarebbe potuto o stabilire in modo chiaro che il rischio di contagio Covid è sempre un rischio generico (salvo i casi di attività che già sono classificate come rischio specifico), lasciando poi la valutazione del caso concreto all’apprezzamento del medico accertatore, o definire meglio i criteri di qualificazione del rischio, intervento forse più adeguato ad un intervento legislativo.
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Conclusioni
La circolare 22/2020 sembra votata a tranquillizzare ad ogni costo i datori di lavoro affermando in più modi che la qualificazione di un contagio Covid come infortunio sul lavoro non comporta alcun automatismo rispetto alla possibile responsabilità civile e/o penale del datore di lavoro ed inoltre si basa su presupposti molto differenti, sicché l’accesso alla tutela assicurativa non ha alcuna implicazione rispetto alla responsabilità del datore.
Per quanto tali affermazioni siano in linea generale condivisibili e corrette, in realtà sono argomentate senza una adeguata distinzione dei principi giuridici coinvolti e con scarsa consapevolezza del valore fondamentale del nesso di causalità e del concetto di rischio specifico che viene ben prima dell’imputabilità.
In conclusione l’obiettivo di ridurre (o rendere più precisi) i margini di responsabilità datoriale è più apparente che reale: trascurano importanti aspetti pratici la circolare ha omesso di definire in modo chiaro come il rischio da contagio Covid si collochi nella distinzione tra rischio “specifico” e “generico”.
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