Il "comporto": specialità della disciplina e nuove esigenze di tutela
Top Legal - Focus Lavoro
dicembre 2020
a cura di Marco Tosi
La normativa emergenziale ed in particolare le disposizioni sul c.d. “blocco dei licenziamenti” inducono oggi a nuove riflessioni su di un istituto classico (ma non per questo poco controverso) del diritto del lavoro: il licenziamento per superamento del comporto. Al comporto, tradizionalmente configurato come periodo di “irrecedibilità”, è affidata dall’ordinamento la delicata funzione di “punto di equilibrio tra l’interesse del lavoratore a disporre di un congruo periodo di assenze per malattia o infortunio e quello del datore di non doversi far carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale” (Cass. n. 12568/2018).
Innegabile la riconduzione della relativa disciplina al disposto codicistico di cui all’art. 2110 c.c., gli interpreti ritengono ormai unanimemente – la fattispecie del comporto soggetta ad una disciplina autonoma e collaterale (rectius speciale) che è destinata a prevalere “sia sulla disciplina generale della risoluzione del con tratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali” (Cass. n. 2527/2020).
Ciò con la conseguenza che il superamento del limite temporale di “tollerabilità dell’assenza del lavoratore”, generalmente demandato (in ordine a modalità di computo ed esclusioni) alla cospicua disciplina contrattuale collettiva, è ritenuto di per sé condizione sufficiente di legittimità del recesso datoriale, non essendo “all’uopo necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse (c.d. repêchage)” (Cass. cit.).
Proprio la specialità e l’automaticità della fatti specie ne determinano l’esclusione dall’ambito di applicazione del divieto di licenziamento per motivi economici introdotto dal decreto Cura Italia. Diversamente può dirsi, invece, per il licenziamento causato dalla sopravvenuta inidoneità alla prestazione lavorativa: come ha puntualizzato una recente Nota dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (3/4/2020) tale ipotesi “deve essere ascritta alla fattispecie del giustificato motivo oggettivo, atteso che impone al datore di lavoro la verifica in ordine alla possibilità” di un eventuale repêchage.
Pacifica l’oggettiva operatività dell’istituto, la giurisprudenza ha concentrato la sua attenzione sulla “tipologia” delle assenze computabili ai fini del raggiungimento del predetto limite facendo registrare una diversificazione di orientamenti cui soccorre la disciplina collettiva che, ove pre sente, ha facoltà di includere o di escludere (to talmente o parzialmente) dal calcolo le assenze dovute a malattia professionale ed infortuni sul lavoro. In ogni caso, per unanime convincimento è am messa l’esclusione dal computo delle assenze (per malattia o infortunio) ove “l’infermità sia comunque imputabile a responsabilità dello stesso datore di lavoro in dipendenza della nocività delle mansioni o dell’ambiente di lavoro che egli abbia omesso di prevenire o eliminare in viola zione dell’obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.) o di specifiche norme, incombendo sul lavoratore l’onere di provare il collegamento causale tra la malattia (o l’infortunio) che ha determinato l’assenza e il superamento del periodo di comporto e le mansioni espletate” (Cass. n. 1180/2015).
Un attacco frontale alla disciplina del comporto oggi delineatasi proviene dalla “forzatura” di alcune pronunce della Corte di Giustizia in tema di diritto antidiscriminatorio, attraverso la quale si vorrebbe istituire una equivalenza tra malattia di lunga durata e handicap, definito a livello europeo come “limitazione della capacità risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell’interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori” (CGUE 11.9.2019, C397/18). Conseguenza di tale assimilazione, l’esclusione dal computo del comporto delle assenze riconducibili al predetto handicap, pena la discriminatorietà (e quindi la nullità) del recesso.
Il problema a ben vedere non è tanto quello del rispetto della Direttiva europea n. 2000/78 che peraltro, ben lungi dal prevedere un principio di “non licenziabilità” del lavoratore, si limita a chiedere al diritto nazionale di adottare “soluzioni ragionevoli” a salvaguardia delle diverse condizioni del soggetto. Il problema è quello legato agli effetti perversi che avrebbe la circolazione, nel sistema, di una nozione “liquida” di handicap (vale a dire lasciata alla discrezionalità dell’interprete o peggio ancora al giudizio soggettivo dei privati), quale deriverebbe dalla equiparazione di un siffatto stato ad una qualsiasi malattia di lunga durata, in assenza di un imprescindibile/oggettivo momento di certifica zione da parte di Commissioni istituzionalmente investite di competenza ad hoc. “Proprio per evitare incertezze” il legislatore dell’emergenza sanitaria (DL n. 18/2020, art. 26, comma 1) ha stabilito che i periodi trascorsi dai dipendenti in quarantena o in permanenza domiciliare fiduciaria sono equiparati alla malattia ai fini del trattamento economico e non sono computabili ai fini del periodo di comporto.
Diversamente da quanto previsto all’art. 87, comma 1 per il settore pubblico (“Il periodo trascorso in malattia o in quarantena … è equi parato al periodo di ricovero ospedaliero e non è computabile ai fini del periodo di comporto”), la sola equiparazione al ricovero ospedaliero delle assenze dei lavoratori che versano in certificate condizioni di “rischio” di cui al secondo comma del citato art. 26 induce a ricondurle ai periodi di malattia da Covid19, ipotesi che in assenza di una espressa previsione per il settore privato resta esclusa (sia se contratta al di fuori del contesto lavorativo sia se da ricondursi a infortunio sul lavoro) dal relativo computo poiché “tale fattispecie rientra nella consueta gestione della malattia comune” (Mess. Inps n. 2584/2020).
Rimane però salva l’autonomia dei contratti collettivi di (auspicabilmente) prevedere per siffatti casi, malattia o ricovero, un trattamento migliorativo, come già avviene per alcune patologie connotate da particolare gravità, consistente vuoi nell’esclusione tout court dal computo, vuoi nell’estensione temporale dei limiti al raggiungimento dei quali il datore è legittimato a recedere.