Prof. Avv. Fiorella Lunardon
 

Cellulare aziendale e tumore: un commento critico alla sentenza della Corte d'appello di Torino

La Guida al Lavoro del Sole 24 Ore pubblica un contributo della professoressa Fiorella Lunardon a proposito della decisione che riconosce il nesso causale tra un tumore encefalico e il prolungato utilizzo del telefono cellulare
Cellulare aziendale e tumore, confermato il nesso eziologico

Guida al Lavoro / Il Sole 24 Ore

Numero 7 / 14 febbraio 2020
 
Fiorella Lunardon
Ordinario di Diritto del Lavoro all'Università di Torino
Avvocata giuslavorista 
 
Con decisione del 3 dicembre 2019 la Corte d’appello di Torino, confermando la sentenza del Tribunale di Ivrea (21 aprile 2017, est. Fadda), ha ritenuto sussistente il nesso causale tra un tumore encefalico e il prolungato utilizzo del telefono cellulare da parte di un dipendente della Telecom svol gente attività di “referente/coordinatore di altri dipendenti”.
 
La fattispecie non è nuova. Nel 2012 si era già espressa in questo senso la Corte di Cassazione (sentenza 12 ottobre 2012, n.17438), a conferma di una decisione della Corte d’appello di Brescia del 2009, entrambe richiamate in motivazione; nel 2017, oltre al citato Tribunale di Ivrea, il Tribunale di Firenze (sentenza 27 aprile 2017, n. 391).  I casi trattati presentano una forte analogia trattandosi di soggetti che avevano fatto uso lavorativo protratto di telefoni cellulari, per un lungo lasso temporale (dai 10 ai 15 anni) e per più ore al giorno (5-6 ore in medi) ed avevano contratto patologie tumorali intracraniche.
 
Il caso di specie
In base all’istruttoria testimoniale condotta il Tribunale di Ivrea aveva accertato che il ricorrente, quale referente/coordinatore di quindici altri dipendenti Telecom, utilizzava “nell’ipotesi più prudente il cellulare per almeno due ore e mezza al giorno (2 telefonate per 5 minuti per 15 colleghi) e nell’ipotesi maggiore, per oltre sette ore al giorno (3 telefonate per 10 minuti per 15 colleghi), cui si aggiungeva il tempo
trascorso al telefono per riferire ai propri superiori e per coordinarsi con il direttore dei lavori degli enti e con le imprese esterne”. Tale utilizzo si sarebbe protratto dal 1995 fino al 2010.
All’epoca, peraltro, non esistevano strumenti per attenuare l’esposizione alle radiofrequenze e tale carenza risultava aggravata dal tipo di tecnologia utilizzata dai primi telefoni cellulari (ETACS). A fine 2009 al ricorrente era stato diagnosticato un neurinoma acustico (un tumore raro che colpisce 0,7-1 persone su 100.000); il lavoratore aveva quindi chiesto all’Inail il riconoscimento della malattia professionale, che l’Istituto ha negato.
 
Contro il provvedimento di diniego egli aveva proposto ricorso al Tribunale del lavoro che ha invece riconosciuto il nesso eziologico tra l’esposizione lavorativa a radiofrequenze e la patologia contratta, con condanna dell’Inail a corrispondere al dipendente una rendita vitalizia da malattia professionale (circa 500 euro al mese, commisurata alla percentuale di danno biologico permanente accertato, pari al 23%).
È bene precisare che, trattandosi di malattia ad eziologia multifattoriale e non tabellata (tale essendo solo quella per cui è la stessa legge a riconoscere il nesso causale con l’attività lavorativa) non è consentito al Giudice di ricorrere ad alcuna presunzione, incombendo sul lavoratore l’onere di provare che la patologia patita è conseguenza (“causa”) di quell’attività. Per costante giurisprudenza tale prova deve essere fornita in termini di ragionevole certezza, dovendosi escludere la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale. Pertanto, il nesso eziologico in questi casi può essere ravvisato solo in presenza di un elevato grado di
probabilità (cfr. Cass. sez. lav. 10 aprile 2018, n. 8773).
 
I passaggi argomentativi

Così come il giudice di primo grado, la Corte d’appello ha valorizzato:
1) l’associazione tra la rarità del tumore e l’abnormità dell’uso del telefono cellulare;
2) la congruità del periodo di latenza con i valori relativi ai tumori non epiteliali;
3) il fatto che la patologia sia insorta nella parte destra del capo del ricorrente, che utilizzava per lo più il cellulare con la destra, essendo destrimane(c.d. ipsilateralità dell’uso); 
4) l’assenza di altra plausibile spiegazione della malattia.
 
Trattasi di argomenti in verità non determinanti ai fini della ricostruzione in termini di “elevato grado di probabilità” del nesso eziologico e soprattutto non esaustivi: associare due “rarità” quali il tipo di tumore e l’eccezionale esposizione alle radiofrequenze non autorizza ad individuare, tra le stesse, un rapporto di causa-effetto; non v’è alcun parametro per una oggettiva misurazione del periodo di latenza del
tumore NA (neurinoma acustico) considerato che, come sottolineato dalla stessa relazione peritale dei CTU incaricati dalla Corte d’appello, v’è «ampia letteratura scientifica da cui risultano tassi di crescita del neurinoma acustico piuttosto variabili»; né può inferirsi dall’ipsilateralità e quindi dalla localizzazione del tumore la prova certa che il fenomeno sia causa della patologia. Quanto all’assenza di altra plausibile spiegazione di quest’ultima è ben noto che la genesi dei tumori (di tutti di tumori) resta tuttora riferibile ad una molteplicità di fattori tra i quali nella maggior parte dei casi è pressoché impossibile individuare quello dominante. Consapevoli di quanto osservato, sia il giudice di primo grado che il giudice del gravame hanno affidato le rispettive conclusioni ad una consulenza tecnica d’ufficio. Così, come spesso capita, al CTU è stato di fatto delegato il compito di trovare «una legge scientifica generale di copertura o quantomeno una legge scientifica che abbia un pre ponderante consenso” tale da suffragare la riconduzione del tumore dei nervi cranici, indotti da esposizione alla radiofrequenze, tra le malattie di origine professionale» (Cass. n. 17438/2012).
 
La ricostruzione del nesso eziologico: dalla possibilità alla probabilità “qualificata”

Come ammette il Tribunale di Ivrea, “la letteratura scientifica è divisa in merito alle conseguenze nocive dell’uso di telefoni cellulari”.
Nella parte motiva della sentenza di primo grado e della Corte d’appello vengono riportate le valutazioni dell’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul cancro (IARC), facente parte dell’OMS, che il maggio 2011 ha definito i campi elettromagnetici ad alta frequenza “cancerogeni possibili per l’uomo” (categoria 2B) e dell’Interphone, il quale, pur negando il nesso causale nelle ipotesi di bassa esposizione, individua per i soggetti ad alta esposizione (corrispondente ad unutilizzo complessivo di telefoni cellulari superiore a 1640 ore, traducibili in durate medie di esposizione di 1 ora al giorno per 4 anni o di due ore al giorno per 2 anni o di mezz’ora al giorno per 8 anni) un rischio del 40% superiore per i glioma (famiglia di tumori cui appartiene anche il neurinoma, che ha colpito il dipendente).
 
Tra gli studi che escludono ogni nesso causale vengono richiamati quelli del proff. Ahlbom e Repacholi, ma «detti autori si trovano in conflitto di interesse essendo il primo consulente di gestori di telefonia cellulare e il secondo di industrie elettriche» e per lo stesso motivo non è attribuita attendibilità agli studi finanziati dalle aziende produttrici di telefoni cellulari (come ritenuto anche dalla Cassazione nella richiamata sentenza n. 17438/2012). Vero è che, tralasciando gli studi considerati inattendibili per conflitto di interesse, sono le stesse valutazioni dello IARC e dell’Interphone a suscitare perplessità, risultando esse utilizzate da parte della comunità scientifica come prova dell’inesistenza di una “evidenza di correlazione” tra cellulari e tumori. [...]

Lo studio Interphone poi viene correntemente citato (dallo stesso Tribunale di Ivrea) tra quelli che propendono per la negazione del nesso causale e anche il dato da esso riportato in ordine al rischio superiore per alte esposizioni, come ha evidenziato l’OMS, non è univocamente inteso in termini di ricostruzione di un chiaro nesso causale. Ciò significa che la CTU disposta e seguita dalla Corte ne ha fatto un uso quantomeno parziale. Lo stesso studio Interphone, prima parzialmente ricalcato, viene poi dalla Corte d’appello contraddittoriamente sottoposto a critica perché «le categorie di esposizione cumulativa utilizzate» si sono rivelate troppo basse, essendo posto «il limite inferiore per la categoria di esposizione cumulativa più alta a sole 1.640 ore di utilizzo» e quindi, nel determinare l’effetto dose-risposta (vale a dire un aumento del rischio di sviluppare la malattia all’aumentare della dose di esposizione), una esposizione al di sotto di questo limite potrebbe essere non sufficiente allo sviluppo di NA. Nessuna attenzione è rivolta al rapporto dell’ISS (Istituto Superiore della Sanità) secondo il quale, all’esito di una analisi di tutti gli studi condotti dal 1999 al 2017 sull’argomento, “l’uso del cellulare non risulta associato all’incidenza di neoplasie nelle aree più esposte alle radiofrequenze durante le chiamate vocali”.
 
Il documento pubblicato dall’Istituto, curato da un gruppo multidisciplinare di esperti di diverse agenzie italiane e indirizzato agli operatori del Servizio Sanitario Nazionale e ai tecnici del Sistema nazionale di protezione, rileva come i dati relativi ai glioma e al neurinoma acustico «siano eterogenei. Alcuni studi caso-controllo riportano notevoli incrementi di rischio anche per modeste durate e intensità cumulative d’uso. Queste osservazioni tuttavia non sono coerenti con l’andamento temporale dei tassi di incidenza dei tumori cerebrali che non hanno risentito del rapido aumento della prevalenza di esposizione. I dati attuali non consentono valutazioni accurate del rischio dei tumori intracranici a più lenta crescita e mancano dati sugli effetti a lungo termine dell’uso del cellulare iniziato durante l’infanzia». Ancora, «la
maggioranza degli studi non osserva associazioni tra esposizione a RF e frequenza di aberrazioni cromosomiche, mentre alcune indagini hanno riscontrato alterazioni della migrazione del DNA e anomalie del fuso mitotico, tutti indicatori di danno genetico transitorio e riparabile».
 
La sentenza della Corte d’appello, con un’argo mentazione sbilanciata a favore della CTU, non solo pare accettare in toto le generiche critiche rivolte dai periti al rapporto dell’ISS (che tra l’altro userebbe in modo inappropriato «i dati sull’andamento dell’incidenza dei tumori cerebrali» senza tener conto dei recenti studi sperimentali), ma, probabilmente consapevole dell’insufficienza dei pur richiamati studi del-
lo IARC e dell’Interphone, sui quasi non prende posizione, si diffonde richiamando altri studi quali quelli relativi alle sperimentazioni su animali e lo studio Hardell. Quest’ultimo mostrerebbe «un rischio di NA (neurinoma acistico) associato all’uso di telefoni wireless progressivamente crescente all’aumentare della dose cumulativa di esposizione calcolata in base alle ore di utilizzo di telefoni cellulari»; quanto alle sperimentazioni su animali, gli studi NTP (National Toxicology Program) e dell’istituto Ramazzini avrebbero individuato un significativo numero di casi di tumore negli animali esposti, seppur con diversa localizzazione (a livello cardiaco invece che a livello cerebrale), spiegata con il fatto che la «somministrazione di RF è stata indirizzata a tutto il corpo e non concentrata sulla testa degli
stessi». La Corte ha altresì reputato irrilevante che i neurinomi acustici «siano tumori benigni, al contrario degli schwannomi cardiaci maligni osservati nei ratti, considerato che questi studi dimostrano che l’esposizione a RF può determinare una trasformazione neoplastica».
 
Il “balzo in avanti” della Corte d’appello rispetto alle evidenze scientifiche attuali
 
Con un’argomentazione basata dunque su di un rin vio parziale agli studi più noti in materia (IARC e Interphone) ed essenzialmente sulle sperimentazioni riguardanti gli animali (di cui risulterebbe carente il rapporto ISS), la Corte giunge alla conclusione che «la durata e l’intensità dell’esposizione (peculiari per la loro abnormità) che assumono particolare rilievo per l’accertata – a livello scientifico – relazione dose-risposta tra esposizione a radiofrequenze da telefono cellulare e rischio di neurinoma dell’acustico, unitamente alla mancanza di altro fattore che possa avere cagionato la patologia, complessivamente valutati, consentono di ritenere che nel caso specifico sussista una legge scientifica di copertura che supporta l’affermazione del nesso causale secondo criteri probabilistici (<più probabile che non>)».
Non può invero che destare perplessità questo “balzo in avanti” della Corte rispetto alle perduranti incertezze che scaturiscono dalla contraddittorietà delle evidenze scientifiche attuali, puntualmente evidenziate dall’ISS.
 
Ciò a maggior ragione se si considera che il panorama internazionale si presenta allineato con la posizione raggiunta dall’ISS: le agenzie statunitensi Environmental Protection Agency (EPA) e il National Toxicology Program (NTP) hanno scelto di non classificare i cellulari tra i carcinogeni potenziali. Allo stesso modo si sono finora espressi la Food and Drug Administration (FDA) e i Centers for Disease Control di Atlanta (CDC). Il National Cancer Institute statunitense (NCI) e il Cancer Research UK (CRUK) ritengono che ulteriori ricerche siano necessarie per valutare complessivamente gli effetti dei cambiamenti tecnologici. Anche il Danish Cohort Study ha valutato l'incidenza dei tumori in 400.000 possessori di telefonino dal 1982 al 1995 e altrettante persone che non lo possedevano. Tale studio, fornendo un'indicazione riguardo ai modelli più vecchi, oggi considerati i più a rischio, non ha trovato correlazione tra l'uso del cellulare e la comparsa di tumori cerebrali.
 
A medesime conclusioni è giunta una ricerca australiana pubblicata sulla rivista Cancer Epidemiology. I ricercatori hanno analizzato i dati, riportati nei registri nazionali, di oltre 34.000 pazienti – 14.000 donne e 20.000 uomini – a cui è stata diagnosticata una neoplasia cerebrale nel trentennio 1982-2012. L’obiettivo era verificare se dopo il 1987, anno di introduzione dei telefoni cellulari nel Paese, il numero di diagnosi fosse aumentato. L’esito è stato negativo. Valutati dunque nello scenario “allargato” della molteplicità delle ricerche, nazionali e internazionali, gli studi su cui si è fondata la CTU disposta dai giudici torinesi – come ha sottolineato Roberto Moccal- di, responsabile della medicina del lavoro al Cnr, “costituiscono la nettissima minoranza rispetto a una massa di informazioni che invece smentiscono l’ipotesi di pericolo per la salute. Siamo comunque l’unico Paese al mondo ad aver riconosciuto la malattia professionale da telefonino”. 

 
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