AFFARI & FINANZA
21 MAGGIO 2018
pag. 63
Dal Jobs Act alla legge Fornero la rivoluzione del reintegro: “Il giudice ora ha più poteri”.
Un cantiere sempre aperto. È l’immagine del diritto del lavoro nel nostro paese, che nel corso degli ultimi anni è stato interessato da una serie di riforme legislative più o meno profonde. Con l’obiettivo da una parte di includere nella sfera dei diritti la crescente platea di lavoratori atipici e dall’altra di incrementare la flessibilità in uscita, favorendo gli investimenti. Il percorso non sempre è stato coerente, non solo per il susseguirsi di diversi indirizzi politici al governo, ma anche per una serie di pronunce giurisprudenziali talvolta in contraddizione tra loro.
Prima del Jobs Act, un momento di rottura rispetto alla disciplina dei licenziamenti si era già avuto con la Legge Fornero del 2012, che tra le altre cose aveva riformato profondamente l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (risalente al 1970). In particolare stabilendo che, in caso di licenziamento per mancanza del giustificato motivo oggettivo, cioè per cause legate non al comportamento del lavoratore, ma alla situazione economica o organizzativa dell’azienda, non scattava più l’obbligo di reintegro, bensì solo un risarcimento a carico del datore, salvo casi residuali.
«Nel 2012 si è prodotto un cambio di paradigma rispetto al passato, nel quale si è poi inserita la riforma nota come Jobs Act, motivata dal desiderio di proporre l’I'talia come un mercato più attrattivo per gli investimenti, e per questa strada puntare a creare più occupati», spiega Andrea Uberti, partner dello studio Tosi e Associati che fornisce assistenza per aziende e dirigenti in materia giuslavoristica e di diritto civile.
Fin qui i principi. In realtà la Legge Fornero ha lasciato alcune questioni aperte in merito ai diversi regimi sanzionatori «rendendo nei fatti la norma di difficile interpretazione», ricorda l’esperto. Insomma, se la semplificazione era tra gli obiettivi iniziali, i risultati sono andati in direzione opposta creando parecchia incertezza tra gli operatori.
Su questo corpo normativo è intervenuta a più riprese la giurisprudenza e da pochi giorni una sentenza della Corte di Cassazione è ritornata su un tema molto dibattuto come quello del repechage. Ovvero il diritto del lavoratore, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, a essere ricollocato qualora siano disponibili posizioni lavorative con mansioni equivalenti all’interno dell’azienda. Sentenza che, sottolinea Uberti, «ha il suo punto di maggiore innovazione laddove ritiene che, pur in presenza di una accertata manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, il giudice possa applicare la sanzione reintegratoria, ma non sia obbligato in tal senso». Insomma, la decisione finale spetta al giudice.
«La reintegra, stabilisce la sentenza, può infatti essere contemplata solo se non eccessivamente onerosa per il datore di lavoro». In sostanza è l’organo giudicante a doverne valutare la compatibilità con le esigenze aziendali. Quali sono i criteri che possono orientare la scelta? «Ad esempio, se l’azienda in via di ristrutturazione ha chiuso il reparto in cui operava il lavoratore licenziato, difficilmente il giudice potrà decidere di imporre un suo ritorno in azienda». La sentenza è quanto meno un passo verso una maggiore chiarezza agli occhi di aziende e giuslavoristi. «La decisione, destinata per la sua portata innovativa a fare giurisprudenza, indica la preferenza per la tutela indennitaria in caso di crisi aziendale e quindi non può che andare nella direzione di produrre meno incertezza sul mercato». (s.d.p.)
Fonte: Affari & Finanza (la Repubblica)