A seguito di cessione di ramo d’azienda e di fallimento della cessionaria, il lavoratore impugnava l’atto di cessione sostenendo la nullità per frode alla legge.
In particolare, il lavoratore rilevava da un lato come la cessionaria avesse da anni risultati negativi e, dall’altro, come la cedente avesse voluto “disfarsi dei dipendenti” addetti al ramo ceduto. Il ricorso è stato respinto dai giudici di merito secondo i quali la validità della cessione di azienda non può essere condizionata ad una prognosi favorevole circa la continuazione dell’attività produttiva.
Tale sentenza è stata confermata dalla Suprema Corte.
I giudici di legittimità, rilevato come nel vigente ordinamento non sia enucleabile alcun divieto di cessione di azienda che, anzi, è disciplinata nei profili civilistici e lavoristici, hanno ritenuto che la cessione di azienda ad un soggetto che per le sue caratteristiche imprenditoriali e per le circostanze del caso concreto renda probabile la cessazione dell’attività produttiva (e dei rapporti di lavoro) non possa configurarsi né come motivo illecito né come atto in frode alla legge.
Dalla libertà imprenditoriale sancita dall’art. 41 Cost. i giudici di legittimità hanno affermato il principio per cui non può imporsi al cedente l’onere di verificare le capacità e potenzialità imprenditoriali del cessionario