Con cinque sentenze depositate il 6 maggio 2021 (12040-12044), la Sezione lavoro della Cassazione ha respinto i ricorsi di altrettanti ex dipendenti della società "Almaviva Contact" ed ha confermato la legittimità della procedura seguita dall'azienda, e validata da tutte le sigle sindacali (tranne una), che ha portato alla chiusura delle sedi di Roma (Divisione 1 e 2) e Napoli che occupavano rispettivamente 1.666 e 845 dipendenti.
Secondo i giudici di legittimità, è possibile limitare la procedura di licenziamento collettivo ai soli addetti di alcune sedi operative, senza coinvolgere l’intero organico aziendale, a condizione che:
- la motivazione di tale limitazione sia esplicitata nella comunicazione di apertura della procedura di riduzione del personale;
- la limitazione risponda a criteri oggettivi, non arbitrari e non discriminatori
In quest'ottica, la comunicazione di apertura della procedura di mobilità costituisce l'elemento dirimente rispetto alle eventuali impugnative di licenziamento.
Nel caso di specie, la limitazione era dovuta alla distanza geografica delle sedi operative di Napoli e Roma dagli altri siti aziendali e dall’infungibilità delle mansioni degli addetti con quelli impiegati nelle altre sedi: a giudizio della Suprema corte, l'azienda ha motivato in modo esaustivo l'impossibilità di estendere la comparazione, ai fini del licenziamento, al personale impiegato presso altre unità produttive ancora attive (Milano, Palermo, Catania e Rende).
La sentenza ha riconosciuto che tale impossibilità era giustificata dalla distanza geografica, superiore ai 500km, che rendeva insostenibile sul piano economico l'applicazione di criteri di scelta a tutto l'organico aziendale ma anche dalla "specializzazione" di ciascun sito produttivo che rendeva infungibili le risorse preparate per dare risposta ad uno specifico committente (Eni e Trenitalia).
La necessità di interventi formativi, organizzativi e logistici per far fronte a questi problemi oggettivi erano tuttavia, e la Suprema Corte li ha riconosciuto come tali incompatibili in la situazione economica della società. Inoltre, osservano i giudici, l'esigenza formativa di ogni lavoratore, da una parte, comporta "un costo indubbio per l'azienda", dall'altra, si traduce nell'"acquisizione di un bagaglio di conoscenze e di esperienze nuovo, che ne diversifica e incrementa la professionalità, così rendendolo idoneo a mansioni che non sono più omogenee alle precedenti svolte". "Sicché, l'equivalenza delle mansioni, tale da configurare un mero passaggio indifferenziato tra lavoratori su diverse commesse, neppure risponde a un dato di realtà".
I giudici di legittimità concludono dunque che il criterio adottato è legittimo, benché diverso da quello operante sull'intero complesso aziendale, e tarato sulle esigenze tecnico-produttive e e organizzative, perché rispondente a requisiti di obiettività e razionalità.