Il caso concerne un lavoratore licenziato in tronco per aver trasmesso alla stampa una lettera con cui imputava ai vertici aziendali il mancato utilizzo di un costoso mezzo produttivo per far ricorso a società esterne.
I giudici di merito hanno ritenuto il licenziamento illegittimo, per carenza di giusta causa, condannando la società al pagamento di una indennità risarcitoria pari a 18 mensilità ritenendo che il lavoratore avesse esercitato il proprio diritto di critica senza trascendere nella diffamazione o calunnia della dirigenza.
La Suprema Corte, adita dalla società, ha riformato la sentenza ritenendo che i giudici di merito non avessero adeguatamente valutato – e motivato – il rispetto dei limiti del diritto di critica
In particolare, i giudici di legittimità hanno precisato che il diritto di critica del lavoratore è soggetto ai seguenti limiti:
- Continenza sostanziale: i fatti attribuiti al datore di lavoro devono corrispondere a verità, almeno putativa secondo un prudente apprezzamento soggettivo del medesimo lavoratore.
- Continenza formale: l'esposizione della critica deve avvenire con modalità espressive che possano dirsi rispettose di canoni, generalmente condivisi, di correttezza, misura e civile rispetto della dignità altrui.
- Pertinenza: la critica deve rispondere ad un interesse meritevole di tutela che nei rapporti di lavoro può configurarsi in relazione alle condizioni del lavoro de dell’impresa.
Nel caso de quo, la Suprema Corte ha ritenuto che la valutazione espressa dai giudici di merito circa l’assenza nella critica espressa dal lavoratore di “un oggettivo contenuto minaccioso, offensivo, dileggioso e calunniatorio" non avesse considerato il rispetto (o meno) di detti limiti