Delocalizzazioni e chiusura di stabilimenti: gli interventi del legislatore, il ruolo del giudice
Prof. Paolo Tosi
Mi sono permesso di invertire la sequenza tematica offerta dal titolo del seminario perché mi pare metodologicamente corretto che il ruolo del giudice venga delineato e apprezzato in relazione agli interventi del legislatore che egli è chiamato (e tenuto) ad applicare.
Parlare da giuslavorista oggi di delocalizzazioni è, a mio avviso, necessariamente parlare, magari con qualche divagazione, della disciplina contenuta nella L. 30 dicembre 2021, n. 234, da ora legge 234, (legge di bilancio finanziario 2022) , che, come vedremo, può definirsi “di scoraggiamento” delle chiusure e delocalizzazioni, prodotta dal Governo Draghi nell’ultimo anno della precedente legislatura con l’ambizioso obiettivo “di garantire la salvaguardia del tessuto occupazionale e produttivo del paese” , pur sotto il modesto titolo (della Sezione I) “Misure quantitative per la realizzazione degli obiettivi programmatici”.
Con l’avvertenza che tale disciplina non concerne specificamente le delocalizzazioni in quanto tali ma solo quelle che si accompagnano alla chiusura di unità produttive. Ad esempio, non concerne la mera traslazione geografica di una parte dell’attività svolta in una unità produttiva che continua ad operare, sia pure con riduzione dell’attività e del personale ad essa addetto. Traslazione che potrebbe avere anche risvolti positivi nella prospettiva di tale salvaguardia. Si pensi alla prima fase, almeno, del trasferimento verso il sud, negli anni ottanta, di alcuni assetti di produzione dello stabilimento Fiat di Arese.
Andrò quindi con ordine ad affrontare le questioni poste da questa disciplina partendo dai requisiti per la sua applicazione.
Il primo requisito, per così dire in positivo, è che si abbia la “chiusura…con cessazione definitiva della relativa attività”, di una entità produttiva “autonoma” essendo l’autonomia il carattere distintivo della formula mutuata dall’art. 35 della legge 300/1970 per individuare il perimetro di applicazione del proprio titolo terzo.
Sarà dunque da vedere se la giurisprudenza intenderà l’autonomia con l’elasticità che ha caratterizzato le operazioni ermeneutiche per l’applicazione appunto del titolo terzo dello Statuto ma anche per l’applicazione dell’art. 2112 c.c. al tempo in cui l’imperativo era favorire tale applicazione per contrastare trasferimenti di aziende o di rami aziendali spogli del loro personale. Ovvero, se avrà seguito l’orientamento rigido seguito dalla nostra giurisprudenza a partire dai primi anni del secolo, sulla scorta di una lettura impropria della giurisprudenza della CGUE, a conforto di una interpretazione del testo normativo di riferimento incompatibile con la sua lettera e con la sua ratio per contrastare trasferimenti o rami di aziende con il loro personale.
Il dottor Marchesini ha ben presenti gli snodi della questione avendo in una recente sentenza escluso la sussistenza del trasferimento di ramo aziendale sul presupposto che il ramo trasferito non poteva ritenersi potenzialmente idoneo all’esercizio di una autonoma attività imprenditoriale avendo continuato a godere del supporto delle strutture organizzative del cedente anche dopo la cessione . Criterio, questo della potenzialità produttiva, condivisibile e correttamente utilizzato dalla giurisprudenza anteriormente all’intervento legislativo del 2001.
Secondo requisito è che la chiusura dell’unità produttiva comporti il licenziamento di almeno cinquanta lavoratori. Osserva Roberto Romei come non sia azzardato pensare che la giurisprudenza possa replicare l’orientamento, adottato nell’applicazione della legge 223 del 1991, che assimila ai licenziamenti le risoluzioni consensuali e le dimissioni, incentivate o meno. Romei rileva puntualmente come questa operazione ermeneutica, incompatibile con la lettera della legge, sia ancora condotta, in chiave di interpretazione comunitariamente orientata, sulla base di una lettura impropria della giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea .
Mi si consenta una ulteriore divagazione sollecitata da quanto appena osservato, pur se, a chi avesse avuto occasione di leggere qualche mio scritto o di ascoltare qualche mia relazione o mio intervento in convegni, apparirò ripetitivo. Ma, come si suol dire, la lingua batte dove il dente duole.
L’esercizio di funzione direttamente legislativa ad opera della Corte costituzionale percorre tutta la sua storia. Un esercizio caratterizzato tuttavia, per lo più, da una sorvegliata cautela, nella consapevolezza che la divisione dei poteri è un cardine della nostra Costituzione. Nell’ultimo periodo, in materia lavoristica, tale cautela pare, non solo a me, essersi attenuata, in particolare considerando gli interventi di restaurazione dell’art. 18 dello Statuto realizzata attraverso la caducazione, nel comma 7, del verbo “può” e dell’avverbio “manifestamente” .
Detto esercizio appare, ancora non solo a me, più preoccupante quando operato dalla giurisprudenza ordinaria e soprattutto dalla Corte di Cassazione . Come allorché ha ritenuto di poter inventare, a completamento della menzionata restaurazione, la riconduzione, nel nostro ordinamento, a clausole generali le elencazioni, nei contratti collettivi, delle sanzioni irrogabili a fronte delle infrazioni disciplinari.
Il culmine di questo esercizio improprio di funzione legislativa da parte della giurisprudenza ordinaria a me pare sia ravvisabile in materia di risarcimento del danno da contratti a termine illegittimi nel pubblico impiego. Qui, a fronte della palese inesistenza del danno, la Suprema Corte ha ritenuto di potersi sostituire al legislatore mediante l’invenzione di un “danno comunitario”. In un primo tempo ha adottato, per la sua quantificazione, “come criterio tendenziale quello indicato dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8 apparendo, invece, improprio il ricorso in via analogica al sistema indennitario onnicomprensivo previsto dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, sia il criterio previsto dall’art. 18 St. lav., trattandosi di criteri che, per motivi diversi, non hanno alcuna attinenza con l’indicata fattispecie” . Successivamente, intervenendo a Sezioni unite, ha adottato proprio il criterio previsto dal Collegato Lavoro del 2010 ed ha inaugurato l’orientamento ormai consolidato cui, per inciso, anche il dott. Marchesini si è di recente, comprensibilmente, conformato, senza necessità di argomentazione alcuna.
Ho parlato di culmine ma forse sono stato ottimista. È stata appena pubblicata una sentenza in cui la Corte disegna il ruolo di un Giudice Demiurgo che, attinte informazioni di varia estrazione e ubbidendo alla propria sensibilità, stabilisce quale retribuzione sia conforme all’art. 36 Cost. indipendentemente e a prescindere dal contratto collettivo afferente alla categoria merceologica di appartenenza del datore di lavoro . Nel caso di specie, un CCNL sottoscritto da FILCAMS-CGIL e FISASCAT-CISL.
Mentre si discute in tutte le sedi e a tutti i livelli circa l’opportunità dell’introduzione del c.d. “salario minimo legale” mi pare legittimo chiedermi se, nell’eventualità della sua introduzione, questo Giudice dovrebbe (vel accetterebbe di) ritenersi da esso vincolato.
Fugace quindi l’impressione che la Suprema Corte avesse maturato qualche ripensamento avendo ritenuto di dover fare ricorso alla Corte costituzionale per l’abrogazione dell’avverbio “espressamente” che nel DL.vo n.23/2015 (c.d. Jobs Act) limita la sanzione della reintegra ai licenziamenti affetti da nullità dichiarate dal legislatore escludendola per quelli affetti da nullità (c.d. virtuale) derivante dalla violazione di norma imperativa . Ciò malgrado da subito una parte della dottrina abbia sostenuto che anche nel secondo caso essa è espressamente comminata dall’art. 1418, comma 1, e comunque entrambe le nullità sono manifestazione del disvalore dell’ordinamento.
L’opzione di questa dottrina francamente preoccupa, attesa anche l’abbondante storia dottrinale e giurisprudenziale che differenzia i due tipi di nullità. Per quanto riguarda l’esito del procedimento dinnanzi alla Corte delle leggi lascio ogni previsione a chi mi ha ascoltato fin qui.
Per non lasciare incompiuta la digressione va osservato che l’ordinanza ha sollevato la questione solo per eccesso di delega in violazione dell’art. 76 Cost. (dovendosi ritenere irrilevante la criptica aggiunta “ed altri eventuali parametri derivati” che del resto compare solo in motivazione e non nel dispositivo). Ha così evitato di scendere sul delicato terreno della irragionevolezza del diverso trattamento previsto, all’esterno del Decreto, dall’art. 18 St. lav., ovvero, all’interno del Decreto, del diverso disvalore attribuito ai due tipi di nullità. Anche se notoriamente la Corte costituzionale raramente ha applicato l’art. 76 Cost., consapevole della sottigliezza del confine tra necessaria esaustività della delega e necessaria discrezionalità del legislatore delegato.
Tornando al tema, mi sono permesso queste divagazioni perché funzionali alle riflessioni sul terzo requisito per l’applicazione della nuova disciplina previsto dal comma 225: “la disciplina di cui ai commi da 224 a 238 si applica ai datori di lavoro che, nell’anno precedente, abbiano occupato, con contratto di lavoro subordinato, un numero minimo di lavoratori subordinati, inclusi gli apprendisti e i dirigenti, mediamente almeno 250 dipendenti”.
Il legislatore ha voluto, considerati i tempi che corrono, puntualizzare, indirettamente ma testualmente, quanto peraltro implicito nel suo complessivo contenuto (giacché contempla solo obblighi nei confronti di sindacati e di enti istituzionali), vale a dire che la legge in esame si applica solo ai datori che occupano lavoratori subordinati e non anche (per il tramite del ben noto art. 2, comma 1, L. 81/2015) a quelli che utilizzano lavoratori c.d. etero-organizzati.
Orbene, il 28 settembre scorso il Tribunale di Milano , sulle orme di qualche precedente e diversamente da altri , nel contesto di un procedimento ex art. 28 St. lav. ha appunto qualificato incidentalmente lavoratori subordinati i riders per applicare loro la legge in questione.
Ciò, malgrado notoriamente la Suprema Corte, nel dichiarato esercizio della propria funzione nomofilattica, abbia ritenuto applicabile ai riders il menzionato art. 2, comma 1, escludendo che si tratti di lavoratori subordinati. Non certo senza ragione, visto che non hanno l’obbligo di lavorare, ed oltre al se, sono liberi di stabilire il quando, il quanto, il dove (potendo scegliere il luogo in cui posizionarsi per ricevere le chiamate della piattaforma), il come (con quale mezzo e secondo quale percorso) lavorare; e non hanno neppure l’obbligo di fedeltà (potendo collegarsi liberamente a più piattaforme).
V’è da pensare che il Giudice milanese non abbia ritenuto di poter aderire all’orientamento del Tribunale di Bologna che considera il ricorso ex art. 28 esperibile anche nei confronti di datori che utilizzano lavoratori etero-organizzati malgrado il generale sistema in cui tale ricorso è collocato e malgrado la norma (processuale, pur se suscettibile di produrre effetti sui rapporti individuali) abbia come oggetto offese recate ai soggetti collettivi.
Sul presupposto di detta qualificazione, il Giudice ha quindi ritenuto antisindacale il mancato espletamento della procedura prevista dalla legge 234 e, assimilando ai licenziamenti le comunicazioni ai collaboratori di disconnessione dalla piattaforma data la cessazione dell’attività aziendale, ha ordinato alla società medesima “di revocare tutti i recessi dai contratti di lavoro di coloro che svolgono la prestazione di rider con le modalità descritte in motivazione con account attivo alla data del 14 giugno 2023”, di avviare con le OO.SS. ricorrenti prima la procedura ex lege 234 e poi quella ex lege 223/1991 “con riferimento ai rapporti di lavoro di coloro che in forma continuativa e personale svolgevano la loro attività come ciclofattorini per la società con account attivo alla data del 15 giugno 2023”.
Osservo come, specie nella prospettiva di una eventuale inottemperanza, penalmente rilevante ai sensi dell’art. 28, comma 4, l’individuazione dei lavoratori statuita nel dispositivo per relationem alla motivazione susciti non poche perplessità. Di più, un conto è revocare i “recessi” (id est, le disconnessioni) ed un conto diverso è attribuire poi incarichi ai collaboratori riconnessi.
Più in generale, essendo destinataria dell’ordine una società italiana integralmente partecipata da una società straniera e avendo questa deciso di abbandonare l’attività in Italia, è lecito chiedersi se nel nostro paese finiscano in ogni caso per restare solo macerie. Darsi carico dell’interrogativo sposterebbe però l’orizzonte dalle conseguenze giuridiche dell’illiceità alle loro implicazioni sul piano del sistema economico-produttivo del Paese. Il che travalicherebbe i compiti di relatore ma anche i confini del giurista positivo.
A maggior ragione quindi è opportuno ch’io torni alla interpretazione del testo di legge, profittando, per recuperare un po’ del tempo impiegato nelle precedenti divagazioni, che non è il caso di fermare l’attenzione sull’ulteriore requisito previsto, questa volta in negativo, dal comma 226, ove è stabilita l’esclusione del datore di lavoro il quale versi “in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza e che possono accedere alla procedura di composizione negoziata della soluzione della crisi di impresa di cui al Decreto-Legge 24/8/2021, n. 118, convertito, con modificazioni, dalla Legge 21/10/2021 n. 147”.
In proposito mi limito ad osservare che il requisito è incardinato su una valutazione prognostica il cui approfondimento ci condurrebbe inevitabilmente, ma impropriamente in questa sede, ad affrontare le questioni attinenti all’applicazione della disciplina contenuta nel D.L.vo 12 febbraio 2019, n. 14 (Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza). Del resto l’esclusione mira proprio a scongiurare ogni interferenza con tale disciplina.
È tempo allora di spiegare perché ho definito “di scoraggiamento” la disciplina, essenzialmente procedurale, introdotta dalla L. n. 234/2021”. Essenzialmente procedurale perché mi paiono sostanzialmente marginali le sanzioni di contenuto economico, pur gravose, previste dal comma 235 e dall’art. 37, comma 2, del DL n. 144/2022 (c.d. decreto aiuti ter), su cui mi soffermerò brevemente più avanti.
La disciplina procedurale si articola in due previsioni. La prima disposizione, contenuta nel comma 224, stabilisce che, ove risultino soddisfatte le condizioni di cui ho fin qui parlato, “il datore di lavoro…è tenuto a dare comunicazione per iscritto dell’intenzione di procedere alla chiusura” ai soggetti sindacali e ad alcuni soggetti istituzionali; comunicazione il cui contenuto è indicato nel successivo comma 227.
La norma non richiede testualmente -come invece l’art. 4, comma 2, della legge n. 223/1991- che tale comunicazione sia “preventiva”, Se però ad essere comunicata deve essere “l’intenzione di procedere alla chiusura”, va preso atto che, seppur non testualmente, è prescritto che essa sia appunto preventiva rispetto alla chiusura stessa.
È già un primo step di scoraggiamento perché notoriamente i datori di lavoro, pur avendo in ipotesi assolto correttamente agli obblighi di informazione e consultazione di fonte collettiva lasciando intravvedere il rischio della chiusura, preferirebbero però, per motivi pure noti, metterla poi effettivamente in atto contestualmente alla comunicazione formale di cui al comma in esame.
Ciò del resto si verificava talora anche quanto all’obbligo previsto dal menzionato art. 4, comma 1, della legge 223/1991. Ancora recentemente sul difetto di comunicazione preventiva dell’intenzione di procedere ai licenziamenti è stata fondata la dichiarazione di antisindacalità dell’avvio della relativa procedura da una recente sentenza della Corte d’Appello di Milano .
La seconda previsione, contenuta sempre nel comma 227, è, per così dire, duplice, in quanto per un verso prescrive che tale comunicazione sia “effettuata almeno centottanta giorni prima dell’avvio della procedura di cui all’art. 4 della legge 23 luglio 1991, n. 223 (cioè la procedura prodromica al licenziamento collettivo) e, per altro verso, stabilisce che “i licenziamenti individuali per giustificato motivo e i licenziamenti collettivi intimati in mancanza della comunicazione o prima dello scadere del termine di centottanta giorni ovvero del minor termine entro il quale è sottoscritto il piano di cui al comma 223 sono nulli”.
Già, perché il comma 228 contiene una proposizione dal tenore lessicalmente precettivo secondo cui “entro sessanta giorni dalla comunicazione di cui al comma 224, il datore di lavoro elabora un piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura” e “lo presenta” ai soggetti destinatari di detta comunicazione.
Il comma 228 indica poi gli elementi che il piano deve contenere per essere poi “discusso” entro centoventi giorni in vista di un auspicato accordo sindacale; i quali elementi prefigurano una sostanziale anticipazione della procedura per i licenziamenti collettivi. Ne viene così generato un confuso scenario di incombenti e di confronto sindacale.
Senonché le descritte previsioni si rivelano inequivocabilmente (non già precettive ma) solo ottative allorché il comma 235 chiarisce che la presentazione del piano è facoltativa. “In mancanza di presentazione del piano o qualora il piano non contenga gli elementi di cui al comma 228” il datore di lavoro subisce esclusivamente un aggravio (ulteriormente aumentato in sede di conversione del DL n.144/2022) del contributo ordinariamente previsto in caso di adozione dei licenziamenti collettivi .
Pertanto il datore di lavoro, qualora non voglia elaborare il piano, ha solo da attendere centottanta giorni (originariamente, novanta) per poter avviare la procedura di cui alla legge n. 223/1991; tempo che, qualora scelga invece di presentare il piano, risulta incrementato della frazione di sessanta giorni che impiega per la sua stesura.
La vis dissuasiva della legge 234/2021 sta quindi anzitutto nella dilatazione del tempo intercorrente tra la decisione imprenditoriale e la sua attuazione finale in ragione della duplicazione delle procedure.
Il Decreto 144/2022 ha poi aggiunto, per il caso che il datore di lavoro pervenga comunque (anche nell’eventualità di accordo sindacale) ad attuare licenziamenti, un ulteriore deterrente economico costituito da un obbligo restitutorio .
Prescindendo dal descritto incremento dei costi, la vis dissuasiva della legge 234 sta quindi anzitutto nella dilatazione del tempo intercorrente tra la decisione imprenditoriale e la sua attuazione in ragione della duplicazione delle procedure.
La vis dissuasiva sta poi, almeno ad una prima impressione, nel contenuto prescritto per la comunicazione; la quale, secondo il comma 227, “indica [a] le ragioni economiche, finanziarie, tecniche o organizzative della chiusura, [b] il numero e i profili professionali del personale occupato e [c] il termine entro cui è prevista la chiusura”.
Vero che il comma 227 statuisce la nullità dei licenziamenti solo per la “mancanza della comunicazione” e non anche per la sua inadeguatezza ma penso che nessun datore di lavoro possa illudersi circa l’effettiva portata limitativa di tale dato testuale.
Il dato sub [b] non dovrebbe porre problemi trattandosi, almeno nella prima fase, della fotografia dei lavoratori addetti all’entità produttiva destinata alla chiusura.
Il dato sub [c] è già meno decifrabile. Si può ipotizzare che il termine sia la data di cessazione dell’attività con collocazione dei lavoratori in CIGS qualora sussistano le condizioni per la sua concessione, diversamente, la data individuata per relationem alla conclusione di entrambe le procedure con conseguente attivazione dei licenziamenti.
È prevedibile allora che il contenzioso e il vaglio critico dei giudici, senza che possa essere agevolmente lamentata la loro ingerenza nel merito delle scelte imprenditoriali, finiranno per concentrarsi sul rispetto della laconica e al tempo stesso onnicomprensiva formula sub [a], cioè sull’adeguatezza/completezza/veridicità delle “ragioni” quali dichiarate dal datore di lavoro a spiegazione della scelta di chiusura dell’entità produttiva.
Qualche spunto di riflessione può trarsi dal recente decreto ex art. 28 St. lav. del Tribunale di Trieste , pur se il Giudice, più che sul vizio della comunicazione in relazione al contenuto prescritto dal comma 227, ha scelto di fondare l’ordine di “revocare la comunicazione di avvio della procedura” sulla violazione di una serie di obblighi di informazione e consultazione di fonte contrattuale ritenuti necessariamente prodromici alla comunicazione stessa. La sentenza dà peraltro conto che un percorso in azienda avente ad oggetto l’adempimento di detti obblighi era intervenuto, ma argomenta che l’adempimento stesso non poteva essere ritenuto corretto.
D’altro canto la proiezione sulla comunicazione ex comma 224 della violazione di obblighi prodromici di fonte collettiva potrà essere desunta, più che altro suggestivamente, dall’art. 237-bis ove è precisato che “sono in ogni caso fatte salve le previsioni di maggior favore per i lavoratori sancite dai contratti collettivi di cui all’art. 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81”.
Suggestivamente perché in realtà la norma è criptica o meglio superflua, giacché non è dato comprendere per quale mai ragione nel nostro ordinamento potrebbero risultare tacitamente caducati (per il passato) o preclusi (per il futuro) diritti dei lavoratori di fonte collettiva. Tanto più che qui si tratta di diritti in capo ai soggetti sindacali.
Opportuno aggiungere che la sentenza attribuisce all’ordine prima trascritto il fine di “riportare la situazione allo status quo ante…affinché si dia luogo alla concertazione fra datore di lavoro e sindacati prevista da contrattazione collettiva ed integrativa; concertazione che dovrà ovviamente essere effettiva e non risolversi nella mera esibizione della comunicazione già inviata” (ed incardinata sulla determinazione di chiusura assunta dalla società estera "madre").
Sui requisiti della effettività, in mente iudicis, sulla scorta della motivazione del decreto afferente alle relazioni intrattenute tra le parti in azienda prima della comunicazione si potrebbero fare solo supposizioni. Preferisco allora astenermene pur non nascondendo l’impressione di una (forse inevitabile), attenzione del Giudice al risultato della sua operazione ermeneutica, tendenzialmente condotta, quindi, alla stregua di una interpretazione teleologicamente orientata.
Volendo, in chiusura, avere una conferma che la legge 234 contiene una disciplina aggiuntiva di mero scoraggiamento è utile tornare alla menzionata sentenza della Corte d’Appello di Milano, dalla quale sono evincibili gli spazi aperti dalla legge 223/1991 all’intervento giurisprudenziale per contrastare le chiusure o delocalizzazioni di siti produttivi, le quali per lo più comportano licenziamenti collettivi. Sebbene, diversamente dalla prevalente giurisprudenza, questa sentenza abbia ritenuto di limitarsi ad una declaratoria di antisindacalità sprovvista di incidenza sulla validità della procedura sfociata negli intimati licenziamenti
Essendo però la prevalente giurisprudenza, come detto, diversamente orientata, non può invece disconoscersi che la disciplina della legge 234 potrebbe essere sviluppata dagli interpreti in tutte le sue potenzialità, finora al più intravedibili, di <contrasto sostanziale> alle chiusure e delocalizzazioni comportanti licenziamenti collettivi nell’area del Jobs Act. Purché, ovviamente, la Corte costituzionale resista alle reiterate sollecitazioni della giurisprudenza di merito di eliminare le differenze di trattamento tra rapporti anteriori e posteriori alla fatidica data del 7 marzo 2015.
Terminando, confesso che sono consapevole di aver svolto la mia relazione in una città provata da una vicenda che potrebbe risultare molto pregiudizievole per il tessuto produttivo ed occupazionale dell’area bolognese. Di tale vicenda so solo che è stata inviata la comunicazione formale di chiusura dello stabilimento Magneti Marelli di Crevalcore e che la società parrebbe aver sospeso la procedura.
Sono altresì consapevole che ho svolto la mia relazione mentre tutti versiamo in uno stato d’animo, eufemisticamente definibile, di disagio. Viviamo infatti un periodo storico angustiato dall’intensificazione dei <radicalismi>. Sia all’esterno del Paese, ove parlare semplicemente di radicalismi è tristemente minimalistico, sia all’interno del Paese, a tutti i livelli . Il che rende particolarmente arduo trovare soluzioni che realizzino un equilibrio sostenibile tra diritti dei lavoratori e diritti (o libertà) delle imprese. Soluzioni che vanno cercate, ben inteso, sul terreno loro proprio, quello della politica e della legislazione.
Sono infine consapevole che non è però possibile tornare indietro ma neppure restare fermi, ad osservare.