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Licenziamento, dimissioni e onere della prova

Con la sentenza n. 3822 dell’8 febbraio 2019, la Corte di Cassazione ha affermato che l’interruzione delle prestazioni, di per sè, non è prova di un licenziamento orale che ne determina poi la nullità
19/02/2019
In un giudizio concernente l’impugnazione di un licenziamento orale, il datore di lavoro ha eccepito l’intervenuta risoluzione del rapporto per dimissioni del lavoratore.
 
Il Tribunale e la Corte di appello, appurato che le risultanze istruttorie non avevano chiarito se il rapporto di lavoro fosse cessato per volontà datoriale o del lavoratore, ha accolto la domanda del lavoratore ritenendo che il medesimo dovesse unicamente provare la cessazione del rapporto con conseguente onere datoriale di provare le dimissioni.
 
La Suprema Corte, adita dalla società, ha riformato la sentenza di merito discostandosi, consapevolmente, dai propri precedenti
In particolare, i giudici di legittimità hanno ritenuto che il licenziamento è l’atto unilaterale con cui il datore di lavoro manifesta la volontà di estinguere il rapporto di lavoro per cui nel giudizio di impugnazione del recesso orale il lavoratore deve provare, quale fatto costitutivo della pretesa azionata, la sua estromissione dal servizio per volontà datoriale.
 
La Suprema Corte ha ulteriormente chiarito come la cessazione del rapporto lavorativo non equivalga affatto alla estromissione dal servizio potendo detta cessazione conseguire a dimissioni o risoluzione consensuale del rapporto. Così delineato l’onere probatorio del lavoratore, i giudici di legittimità hanno conseguentemente affermato che, ove nel giudizio non sia provato né il licenziamento né le dimissioni, la domanda del lavoratore deve essere respinta.

 
 




 
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