Il lavoratore, già assunto nel giugno 2011 con contratti di lavoro intermittente, ha impugnato il contratto sostenendone l’illegittimità per violazione della disciplina collettiva e chiedendone la conversione in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
In particolare, il lavoratore ha sostenuto che il CCNL vigente ratione temporis vietava il ricorso al lavoro intermittente.
La domanda è stata respinta dai giudici di merito rilevando da un lato che il CCNL non prevedeva il divieto invocato dal lavoratore e, dall’altro, che le parti sociali non avrebbero comunque avuto alcuna facoltà di veto.
La pronuncia, impugnata innanzi alla Suprema Corte, è stata confermata relativamente all’insussistenza di un potere di veto delle parti sociali.
Al riguardo, i giudici di legittimità hanno ritenuto che:
- l’art. 34, D.Lgs. n. 276/2003 (analoga previsione è attualmente contenuta nell’art. 13, D.Lgs. n. 81/2015) demanda alla contrattazione collettiva l’individuazione delle esigenze per le quale è consentita la stipulazione del contratto di lavoro intermittente:
- l’art. 40, D.Lgs. n. 276/2003 (analoga previsione è attualmente contenuta nell’art. 13, D.Lgs. n. 81/2015) prevede, in caso di mancata regolamentazione da parte della contrattazione collettiva, l’emanazione di un decreto ministeriale per l’individuazione dei casi in cui è consentito il ricorso al lavoro intermittente;
- l’art. 34, D.Lgs. n. 276/2003 (analoga previsione è attualmente contenuta nell’art. 14, D.Lgs. n. 81/2015) tra le ipotesi di divieto non richiama previsioni contrattuali di veto.
Da tali elementi la Suprema Corte ha escluso ogni facoltà di veto per le parti sociali che possono solamente determinare i casi di ricorso al lavoro intermittente.