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Concorrenza, Lavoro, Diritti (aspetti collettivo-sindacali)

Pubblichiamo una sintesi della relazione introduttiva del prof. Paolo Tosi ai lavori del convegno nazionale dell'Associazione Giuslavoristi Italiani, tenutosi a Torino dal 14 al 16 settembre 2017
29/09/2017
Concorrenza, Lavoro, Diritti 
(aspetti collettivo-sindacali)
 
di Paolo Tosi
Torino, Convegno AGI 2017
 
Il titolo del Convegno rappresenta efficacemente il bivio cui si trova di fronte il sindacato, per tradizione paladino dei diritti dei lavoratori contro le leggi del libero mercato, costretto a trasformarsi in demiurgo della competitività intesa come capacità dell’impresa (e del sistema produttivo nel suo complesso) di concorrere nel mercato aperto europeo e mondiale. 
 
E’ la globalizzazione a disegnare l’ultimo tratto della parabola evolutiva delle nostre relazioni collettive. Il mutamento è drastico, specie se confrontato con il ritmo lento dei processi autoregolamentativi dell’ordinamento intersindacale. Valga a riprova la reazione entropica suscitata dal noto caso Fiat, quando l’imposizione delle ragioni dell’economia ha determinato non il fallimento delle trattative contrattuali aziendali e nazionali, ma la spaccatura del fronte sindacale stesso. 
A valle della ricomposizione, avviatasi più di un quinquennio fa con l’Accordo interconfederale 28 giugno 2011, poi completata con l’Accordo interconfederale 10 gennaio 2014 (c.d. Testo Unico sulla rappresentanza sindacale), il sistema contrattuale resta di difficile decifrazione, specie per chi non vuole cedere alle tentazioni di più facili letture ideologiche.Confermando la sua resistenza all’intervento legislativo, quel sistema ha già in qualche modo risposto alla domanda di competitività proveniente dal mondo imprenditoriale, accedendo all’idea della riforma del modello contrattuale, accettando la misurazione della rappresentatività delle associazioni sindacali nazionali, riconoscendo il criterio maggioritario (oggetto di antichi ostracismi) e l’inevitabilità del decentramento contrattuale (contratti aziendali in deroga). 
 
Non sono più immaginabili schemi rigidi ed immutabili nel tempo”, ribadisce il Documento sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil il 14 gennaio 2016 (punto 1) “fermo restando un modello contrattuale articolato su due livelli. L’esperienza di questi anni suggerisce piuttosto un plafond generale di regole basilari, sulle quali poter innestare in modo flessibile gli adeguamenti/aggiornamenti necessari. Non esiste un modello figlio della crisi, ma la definizione di regole figlie di un’attenta lettura delle diverse necessità dell’attuale sistema di impresa e della diversa composizione professionale del lavoro”.
 
Settore pubblico a parte (indubbiamente più coeso grazie alle ripetute iniezioni di “rilegificazione”, di cui l’ultima reca la data del 25 maggio 2017), quello stesso sistema continua però a scontare la debolezza degli strumenti utilizzati, in particolare l’intrasmissibilità dei vincoli stabiliti dagli accordi interconfederali ai soggetti della contrattazione collettiva nazionale (e decentrata), ciò che significa, per le “regole” di novella introduzione, la necessità di trascorrere un più o meno lungo periodo di decantazione in attesa di una coerente (ma sempre futura) applicazione. Periodo, tra l’altro, durante il quale molte cose possono cambiare, come è successo ad esempio con il Cnel, investito dal Testo Unico del compito di quantificazione dei dati sulla rappresentatività e oggi, seppur sopravvissuto alla bufera referendaria, ritenuto inidoneo alla collaborazione con l’Inps. 
 
Il 4 luglio 2017 tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil è stato stipulato un “Accordo di modifiche al TU rappresentanza 10 gennaio 2014” che ha trasferito all’Inps “le funzioni attribuite al Cnel in ordine alla raccolta del dato elettorale e alla sua ponderazione con il dato associativo” nonché istituito un “Comitato di gestione”, le cui funzioni dovranno essere disciplinate in base ad un regolamento predisposto dalle parti firmatarie del menzionato Testo Unico. Spetta a tale Comitato, di peculiare composizione triangolare (un rappresentante del Ministero del lavoro che è anche presidente, due di Confindustria, e poi “tutte le OOSS che raggiungano la soglia del 5% di rappresentanza sulla base dell’ultimo dato della rappresentanza certificato”) proclamare il risultato annuale della misurazione e certificazione della rappresentanza “per ogni singolo contratto nazionale censito”. 
 
Ottimisticamente, si potrebbe essere indotti a pensare che lo scioglimento del nodo della “misurazione” della rappresentatività dei sindacati nazionali sia in grado di innescare un processo spontaneo di coordinamento, se non altro, tra i molteplici criteri selettivi utilizzati con differenti finalità: l’accesso ai diritti sindacali di cui al titolo III dello Statuto dei lavoratori (ai sensi dell’art. 19, come modificato dalla Corte Cost., sent. n. 231/2013); l’accesso alle trattative nazionali (come regolato dal Testo Unico, parte III) e lo svolgimento (per devoluzione) di funzioni integrative/derogatorie delle disposizioni legali (ai sensi dell’art. 51 del d. lgs. n. 81/2015, che ne investe in esclusiva il sindacato comparativamente più rappresentativo, per di più parificando la contrattazione nazionale e quella decentrata).
 
Anche sul versante della regolamentazione del diritto di sciopero nel settore dei trasporti, la misurazione della rappresentatività sindacale (seppur sulla base del solo criterio associativo, come per ora previsto dal d.d.l. 1286, a firma Sacconi) appare funzionale alla limitazione del diritto di proclamazione ai soli sindacati che superino una determinata soglia (il 50% della categoria di riferimento nei d.d.l. Sacconi e Ichino, attualmente in via di unificazione) o, in mancanza, che abbiano attivato un referendum preventivo, con esito positivo, tra i lavoratori interessati.  
La sensazione diffusa è tuttavia quella che la riforma non riesca a partire, che il problema di fondo resti il conflitto intersindacale e soprattutto l’incapacità del sindacato di comunicare con le aziende trovando i giusti interlocutori, complice la frammentazione dello stesso versante datoriale, assai poco contrastata e per qualcuno anzi favorita dal fenomeno dell’impresa di rete (nonostante si tratti di un fenomeno comunemente ritenuto aggregativo).
 
Alle difficoltà interne si sommano poi quelle del rapporto tra ordinamento intersindacale e ordinamento generale, una “cerniera” di cui continuano a restare sfuggenti gli addentellati: basti pensare alle incertezze generate dall’applicazione a dir poco disuguale dell’art. 2070 cod. civ. sul piano dell’individuazione del minimo a fini contributivi, pur a seguito del (pacifico) affrancamento dal concetto ontologico di categoria,  oltre che alle ricorrenti questioni di efficacia soggettiva generalizzata dei contratti collettivi che, nei momenti di rottura dell’unità sindacale, si ripropongono a prescindere dal livello (nazionale o aziendale) coinvolto per trovare infine soluzioni le più diversificate sulla scrivania dei giudici.
 
Altrettanto controverso resta l’istituto della consultazione referendaria prevista dallo stesso Testo Unico (a livello sia nazionale sia aziendale se il soggetto stipulante è la rsa) quale strumento (spurio) di validazione degli accordi collettivi raggiunti con l’appoggio della maggioranza (50% + 1 della rappresentanza per il nazionale o la maggioranza delle deleghe conferite dai lavoratori per l’aziendale) ma nel dissenso di alcune sigle sindacali. Tale istituto, per quanto essenzialmente caratterizzato da una ratio compensatoria del criterio maggioritario appena introdotto, indebolisce tuttavia la capacità negoziale del sindacato, esponendolo a ripercussioni negative sul piano del rapporto tra l’autonomia collettiva e le manifestazioni individuali delle volontà dei lavoratori (come recentemente testimoniato dalla vicenda Alitalia).
Un’autentica razionalizzazione del sistema pare insomma ancora lontana e in ogni caso tecnicamente così delicata da non essere facilmente attuabile con un intervento legislativo (anche se solo di “supporto” alle soluzioni già elaborate sul terreno dell’autonomia). Ne è prova la sterilità e la contraddittorietà delle opzioni ricostruttive prospettate dai disegni di legge finora circolanti.
 
Contrastanti sono altresì i segnali che provengono dal fronte legislativo: dopo l’incursione operata nell’ormai lontano agosto 2011 con l’art. 8 del d.l. n. 138 (convertito con legge n. 148/2011) a favore della contrattazione collettiva aziendale, il legislatore (si ripete: settore pubblico a parte) pare essersi richiuso nel suo tradizionale astensionismo, limitandosi da un lato ad unificare il criterio selettivo dei soggetti destinatari delle disposizioni legali di rinvio (cfr. il già richiamato art. 51 del d. lgs. n. 2015 che ha generalizzato il riferimento al sindacato comparativamente più rappresentativo) e occupandosi dall’altro quasi esclusivamente della disciplina del rapporto di lavoro (subordinato, parasubordinato, autonomo e da giugno 2017 anche occasionale, in sostituzione dell’abrogata fattispecie vuoi dei voucher vuoi del lavoro autonomo occasionale in senso stretto). 
 
Il silenzio del legislatore, interrotto di quando in quando dai provvedimenti di defiscalizzazione/decontribuzione della retribuzione di produttività (cfr. da ultimo la legge n. 208/2015, art. 1, commi da 182 a 191, attuati con DM 25 marzo 2016), è altresì nuovamente calato sulla contrastata ma già dimenticata previsione del “salario minimo” contenuta nella legge delega n. 183/2014 che, tra l’altro, riguarda “i settori non regolati da contratti collettivi”, pur se richiede la “previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” (art. 1, comma 7, lett. g). 
Difficile invero valutare se si tratta di fiducia verso la spontanea ricomposizione degli equilibri interni del sistema contrattuale o di disinteresse verso dinamiche che finora hanno sempre trovato sbocchi, anche soddisfacenti, sul piano della Costituzione “materiale”.
 
La giurisprudenza, dal canto suo, continua a dare dimostrazione di volersi muovere in autonomia, talora senza preoccuparsi della coerenza del sistema.  Quella vis creativa che le ha consentito di elaborare parti fondamentali del diritto sindacale italiano trascende oggi, sempre più spesso, in operazioni ermeneutiche decontestualizzate e/o applicazioni forzate delle clausole degli accordi sindacali. Basti menzionare la recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (n. 13978/2017) la quale, pur a fronte di una disposizione che “fa salvo” il diritto di indire l’assemblea per tre delle dieci ore annue retribuite “alle associazioni sindacali stipulanti il ccnl applicato nell’unità produttiva” – dunque le associazioni esterne all’azienda – legge la clausola come se quelle tre ore fossero attribuite “alle componenti delle RSU” espresse dalle organizzazioni sindacali dotate di rappresentatività ai sensi dell’art. 19 St. lav. Viene così negato il potere di consultare direttamente i lavoratori ai sindacati territoriali; potere che il Testo Unico ha voluto conservare, tanto più a fronte del superamento del “terzo riservato” ai sindacati stipulanti il contratto collettivo applicato in azienda. Ne risultano favorite le spinte centrifughe già sollecitate da un sistema che vede in difficoltà la regia su base nazionale.
 
 
 

 
 




 
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