La Corte di cassazione ha deciso in questo senso con la sentenza 21801/2021.
Il caso di specie riguarda una dipendente della Agenzia delle Entrate, la quale in occasione di un concorso interno bandito per attribuire una progressione economica, era penalizzata dal fatto di essere una dipendente part-time, in quanto nel bando di concorso era stato previsto un punteggio relativo alla “esperienza di servizio”, riproporzionato per i lavoratori part time in ragione del minore orario di lavoro svolto. Una dipendente impugnava tale regola, sostenendo che la sua applicazione concreta produceva una discriminazione nei confronti delle lavoratrici donne, che utilizzavano in larga misura l’orario a tempo parziale.
Il ricorso veniva respinto dalla Corte di Appello di Torino. I giudici di appello ritenevano che il criterio non fosse discriminatorio, in quanto applicato a tutti i lavoratori part-time, al di là del genere, e richiedeva l’intervento della Suprema corte, che invece afferma che l’utilizzo di un criterio oggettivo e apparentemente neutro come il punteggio legato all’anzianità di servizio, riparametrato in relazione all’orario di lavoro, può risultare illegittimo se in concreto penalizza la maggioranza delle donne.
Secondo i giudici di legittimità, la verifica non andava fatta sul «trattamento» applicato (che era certamente corretto, sul piano formale) ma avrebbe dovuto estendersi all’ «effetto» discriminatorio che esso avrebbe prodotto, in coerenza con le norme interne (Dlgs 198/2006) e con la giurisprudenza della Corte di giustizia europea.
Benché formalmente il criterio adottato sia neutrale, nella sostanza l’istituto del part-time è tipicamente legato alle donne, che se ne avvale come modalità di lavoro compatibile con le esigenze familiari, per questo la scelta di ridurre il punteggio per il lavoro part-time su entrambi i sessi, realizzava una discriminazione indiretta di genere.