Il lavoratore, tratto in arresto per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, per due settimane ha omesso di comunicare la ragione della propria assenza al datore di lavoro chiedendo, nel corso di tale periodo, un permesso per ragioni personali. Ritenuto leso il vincolo fiduciario sotteso al rapporto lavorativo, il datore di lavoro ha intimato il licenziamento per giusta causa.
I giudici di merito si sono espressi con pronunce di segno contrario: in particolare, il tribunale di Cassino ha ritenuto illegittimo il recesso mentre la Corte di appello di Roma ha ritenuto sussistente la giusta causa.
La Suprema Corte, adita dal lavoratore, ha confermato la pronuncia del collegio romano con l'ordinanza n. 24976 del 7 ottobre 2019.
In particolare, secondo i giudici di legittimità la Corte di appello ha compiutamente valutato il caso concreto sia nel profilo oggettivo (omessa comunicazione dello stato di detenzione) sia nel profilo soggettivo (volontà di occultare la vera ragione di assenza).
Così confermata la ricostruzione dei fatti, la Suprema Corte ha condiviso la sussunzione operata dai giudici di merito ritenendo che l’omessa comunicazione dello stato di detenzione per due settimana violi gli obblighi di correttezza e buona fede ai quali deve essere improntato il comportamento del lavoratore.
Ciò in considerazione del principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, per cui gli artt. 2104 e 2105 c.c. non devono essere interpretati restrittivamente sicché il dovere di diligenza può riferirsi ai vari doveri strumentali e complementari e l’obbligo di fedeltà può estendersi a comportamenti contrastanti con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o in conflitto con le finalità e gli interessi dell'impresa.