Con l’ordinanza n. 26609 del 2 ottobre 2025 la Corte di Cassazione ha ribadito che, nel licenziamento dei dirigenti, non è richiesta la sussistenza di una “giusta causa” o di un “giustificato motivo” come per gli altri lavoratori, ma è sufficiente che il recesso non sia privo di “giustificatezza”. Si tratta di un criterio più flessibile, che si fonda principalmente sul venir meno del vincolo fiduciario tra datore e dirigente, piuttosto che sull’entità oggettiva della violazione contestata.
Il caso riguardava un direttore generale licenziato per carenze gestionali e di vigilanza su alcune commesse internazionali, tra cui errori nella preparazione di una gara in Svezia, legati alla mancata traduzione di documenti e alla sottostima dei costi. Il dirigente, impugnando il recesso, aveva sostenuto di essere stato sanzionato per fatti imputabili ai collaboratori, ma la Corte d’Appello aveva ritenuto che la responsabilità fosse personale, in quanto riferita all’omesso controllo e coordinamento delle attività aziendali.
La Cassazione ha confermato tale valutazione, precisando che ai fini della “giustificatezza” non serve una verifica analitica delle singole condotte, ma una valutazione complessiva che escluda l’arbitrarietà del licenziamento. Il recesso non deve rappresentare un’extrema ratio, ma può essere legittimo anche in presenza di comportamenti che, nel loro insieme, incrinano l’affidabilità e la fiducia che il datore di lavoro deve riporre nel dirigente.
La decisione conferma quindi un orientamento consolidato: la “giustificatezza” del licenziamento dirigenziale è un concetto elastico, che consente il recesso ogni volta che la condotta complessiva del dirigente risulti incompatibile con il livello di responsabilità e affidabilità richiesto dal suo ruolo, anche in assenza di una violazione specifica o particolarmente grave.